Lucy in the sky with diamonds

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Lucy in the sky with diamonds di Giorgio Manzi Professore ordinario di Antropologia alla Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Biologia Ambientale, Direttore del Polo museale Sapienza

Lucy è una vera e propria “star” dell’evoluzione umana, quasi un’icona della paleoantropologia: la scienza che studia le nostre origini. Come molti sanno, si tratta di larga parte dello scheletro di una giovane femmina di australopiteco (la varietà di scimmie antropomorfe bipedi da cui emerse il genere Homo), che porta un nome ispirato dal titolo di una canzone dei Beatles. Un reperto chiave per la storia della paleoantropologia.

Ogni volta che ci penso, ricordo sempre un episodio personale (scusate se ne parlo qui): quello di quando, preso dalla lettura del libro che mi era stato appena regalato – intitolato Lucy, per l’appunto (D.C. Johanson e M. Edey, Lucy, le origini dell’umanità, Mondadori 1981) – stavo rischiando di non poter sostenere l’esame di “Zoologia 2”, l’ultimo che mancava al completamento del mio percorso di studi universitari. La cosa avrebbe avuto ripercussioni spiacevoli sulla data della discussione della mia tesi di laurea e forse avrei perso un anno, ma non potevo fare a meno di leggere avidamente quelle pagine, lasciando da parte crostacei, ragni e insetti. 

A suo modo è un libro bellissimo (che ancora consiglio di leggere), giocato sul filo di una narrazione quasi romanzesca e con aspetti “gialli”, condita da tanta storia delle ricerche e da illustrazioni e commenti talvolta anche tecnici sulla morfologia degli ominidi e sulle diagnosi di specie estinte. Al diavolo dunque gli artropodi; mi ingolosivano invece quelle figure a tratto, quelle foto sbiadite e quei racconti di antenati e di cacciatori di fossili. Passai almeno un paio di giorni immerso nella lettura e quasi una settimana intera a rileggerlo con cura. Eppure, sarebbero stati giorni cruciali per la mia preparazione all’esame e per il conseguimento del diploma, ma al tempo stesso furono giorni spesi bene, posso oggi dire col senno di poi. Peraltro quell’esame, preparato in meno tempo del dovuto, andò comunque benissimo, e a seguire mi laureai con pieni voti e lode della commissione. Soprattutto, quel libro mi coinvolse a tal punto che, ne sono certo, influenzò (insieme a molto altro) le mie scelte future e il mio destino professionale. 

La storia della scoperta di Lucy e delle ricerche che ne seguirono è ben nota. Era la fine di novembre del 1974, in una località chiamata Hadar, in Etiopia, quando Donald Johanson – all’epoca conservatore del Museo di Cleveland, negli USA, e direttore con il francese Yves Coppens di una missione paleontologica nella terra degli Afar – scopriva quello scheletro, la studiava poi per diversi anni e la raccontava al mondo. Apriva così nuove prospettive per le ricerche in Africa orientale e per la scienza delle nostre origini in genere. 

L’anno prima, Johanson aveva intrapreso una missione franco-statunitense in territori mai esplorati da geologi, paleontologi e archeologi preistorici: segnata dalla valle del fiume Awash, quest’area è parte dell’estensione settentrionale del complesso sistema di fratture tettoniche noto come Rift Valley. Qui, nell’area di Hadar, Johanson e gli altri rinvennero nel 1973 i primi resti di una forma arcaica di australopiteco. Quindi, nel 1974 venne Lucy; ovvero, per gli specialisti, AL 288-1 (dove AL sta per Afar Locality). Ancora, nel 1975 l’insieme di circa 200 frammenti fossili appartenenti a un minimo di 17 individui adulti e giovani, denominato “la prima famiglia “ (AL 333) e ancora molto altro, sia allora che negli anni a seguire: ad esempio, negli anni novanta, il cranio maschile della stessa varietà di australopiteco (AL 444-2); e ancora e ancora, fino alle ultime missioni. Un altro reperto di straordinario interesse venne scoperto nel 2000 in una località a pochi chilometri da Hadar: Dikika. Si tratta del cranio e di parte dello scheletro di un individuo, ipoteticamente di sesso femminile, che morì all’età di tre o quattro anni. Questi e altri campioni fossili appartengono tutti una medesima specie estinta denominata nel 1978 – dallo stesso Johanson, insieme all’antropologo di Berkeley Tim White e al già citato Yves Coppens – Australopithecus afarensis

A seguito di questa fortunata serie di scoperte, iniziate da Johanson e da altri nei primi anni ’70 del secolo scorso, Australopithecus afarensis è forse la specie di australopiteco meglio nota in campo specialistico e nella divulgazione, includendo una considerevole quantità di reperti più o meno frammentari, fra cui la stessa Lucy. I fossili attribuiti a questa specie provengono da vari siti distribuiti negli attuali territori dell’Etiopia, a nord, e della Tanzania più a sud, che nel loro insieme vengono datati fra poco meno di 4 e circa 3 Ma. Con le ricerche degli anni settanta ad Hadar e altrove venne infatti letteralmente sfondato il limite dei tre milioni di anni fa, fino a quel momento ritenuto già molto elevato per la cronologia dei più antichi precursori dell’umanità. Lucy, per esempio, avrebbe un’antichità di circa 3,2 milioni di anni. 

Ad Australopithecus afarensis vengono anche riferite le impronte scoperte a Laetoli, in Tanzania, nel 1978. Molto più di recente, nel 2015, altre impronte sono state scoperte nello stesso sito (a poco più di cento metri dalle prime) dal gruppo di ricerca italo-tanzaniano di cui io stesso faccio parte. Nell’insieme, si tratta di alcune piste estese per decine di metri, lasciate da cinque primati bipedi che si muovevano tutti nella stessa direzione 3,65 milioni di anni fa: un grosso maschio e quattro individui più piccoli, fra femmine e cuccioli di varia taglia. Queste, con molte altre tracce di fauna africana dell’epoca, si sono poi «fossilizzate» nell’esteso strato di cenere vulcanica cementata (tufo) di cui è composta la stratigrafia del sito e dell’intera piccola valle. La morfologia delle singole impronte bipedi e l’andamento delle piste ci dicono molto sul piano strettamente anatomico e funzionale; quindi aggiungono informazioni a quanto possiamo desumere dallo studio dei resti scheletrici. Ma soprattutto, direi, a Laetoli sono impressi alcuni fotogrammi che raccontano un momento della vita di queste antichissime scimmie antropomorfe bipedi e la composizione di un gruppo di esse. 

Grazie al numero e alla diversità dei reperti attribuiti ad Australopithecus afarensis, siamo in grado di affrontare e comprendere la variabilità interna a una specie estinta di nostri antenati e di chiarirne aspetti della biologia e del comportamento. Per esempio, un dibattito ancora molto attuale riguarda la possibilità che questa sia stata una specie con elevato dimorfismo sessuale (grande diversità, soprattutto nelle dimensioni, tra maschi e femmine) simile alla variabilità tra i due sessi che osserviamo oggi in alcune scimmie antropomorfe, come ad esempio nei gorilla. Questo dato suggerisce che difficilmente la struttura sociale delle più antiche specie di australopiteco potesse essere basata su un modello “promiscuo” simile a quello degli attuali scimpanzé o assomigliare alle comunità familiari (composte cioè da coppie relativamente stabili) di noi Homo sapiens, visto che un elevato dimorfismo sessuale nei primati superiori è associato a elevata competizione tra i maschi per la riproduzione e a strutture sociali cosiddette “ad harem”. È uno degli aspetti che intorno a due milioni di anni fa, con la comparsa del genere Homo, cambierà radicalmente. 

Le specie del genere Australopithecus, aldilà delle differenze interspecifiche, erano primati di taglia medio-grande, la cui statura, salvo eccezioni, ci risulta di poco superiore al metro e il cui peso corporeo si doveva aggirare intorno ai 35-45 kg. Nel cranio osserviamo il mantenimento, di una conformazione che potremmo dire da scimmia antropomorfa, con una scatola encefalica relativamente piccola che contiene un volume inferiore a mezzo litro (con i primi Homo questa soglia verrà superata, mentre la nostra specie quasi raggiunge volumi tre volte superiori). La faccia appare invece grande e prognata, disposta anteriormente alla scatola cranica e con uno sviluppo particolare delle mascelle. Le dimensioni dei denti mostrano un’inversione di tendenza rispetto alle scimmie antropomorfe. In uno scimpanzé o in un gorilla sono grandi gli incisivi e i canini (anteriormente), e proporzionalmente più piccoli i premolari e i molari (posteriormente). In Australopithecus si osserva esattamente il contrario: i denti anteriori sono ridotti o molto ridotti, tanto che i canini sporgono pochissimo (o per nulla) dal piano di masticazione e gli incisivi tendono a ridursi, mentre i denti posteriori sono voluminosi, talvolta enormi; a questo sviluppo della dentatura corrispondono adeguati impianti per i muscoli della masticazione, come si osserva nella mandibola e sulla volta cranica di questi nostri parenti estinti. Sono creature che si diffusero in Africa orientale e meridionale fra circa 4 milioni e quasi 1 milione di anni fa. Diffondendosi si differenziarono in diversi generi e specie, che poi si andarono sempre più specializzando in varie direzioni, soprattutto sotto il profilo alimentare. Così fecero le specie del genere Paranthropus, grandi masticatori di vegetali, mentre in tutt’altra direzione si specializzarono i primi rappresentanti del genere Homo, fra i quali si affermò una dieta più ricca di carne, che a sua volta favorì l’acquisizione di nuove caratteristiche che, per quanto primordiali, possiamo già definire umane. 

Riassumendo, una fra le tante predizioni di Charles Darwin (1809-1882) che si sono pienamente avverate riguarda le nostre origini africane. Sappiamo bene ormai che, intorno a 4 milioni di anni fa, è appunto in Africa orientale che compaiono i primi Australopithecus; ci sono tuttavia resti fossili di possibili nostri antenati che sono antichi quasi il doppio. In ogni caso, ci troviamo in un’epoca prossima a quei 5 milioni di anni circa che vengono stimati dai calcoli del cosiddetto “orologio molecolare” per le radici della nostra linea evolutiva, ovvero per la separazione dall’antenato che abbiamo avuto in comune con gli scimpanzé. Nei milioni d’anni successivi, specie del genere Australopithecus e di altre forme affini – fra le quali quella a cui appartiene la nostra Lucy – si adattarono e diversificarono ai limiti delle foreste e nelle savane dell’Africa orientale e meridionale. Erano simili a scimmie antropomorfe, ma avevano insolite caratteristiche dentarie e, soprattutto, erano bipedi: fra i vari adattamenti, sarà quello determinante per i successivi sviluppi dell’evoluzione umana.