Il campanello d’allarme squillò la prima volta che vidi un disegno di Tanino Liberatore, diversi anni fa, ad un festival dei comics, a Lucca.
Era pubblicato sulla seconda di copertina di una piccola rivista intitolata Cannibale. Un disegno in bianco e nero che rappresentava una ricca signora accovacciata, impegnata in una fellatio su un aborigeno australiano, dritto in piedi con l’aria solenne e indifferente, come una sequoia.
L’immagine era ovviamente contundente, ma l’allarme era scattato per un altro motivo.
Nella mia testa un segnale d’allarme si attiva quando mi imbatto (per fortuna non troppo spesso) in un disegnatore molto ma molto bravo, impietosamente più bravo di me. Chiarisco subito che, se si tratta di invidia, è invidia per il talento, non per il successo.
Ma in quel disegno c’era qualcosa di ancora più allarmante: un senso di pericolo latente, un’ansietà profonda, di cui non si conosce l’origine.
E sono le donne di Liberatore, in particolare, ad essere pericolose. Sarà il taglio dei capelli, l’abbigliamento, sarà la loro fisicità, lo sguardo torbido, i profili camusi.
E poi c’è, in certi casi, quel senso latente di malattia, di imperfezione fisica che ne aumenta il fascino morboso, facendone percepire perversioni segrete.
Forse è proprio questo lato oscuro che rende così attuali i personaggi di Liberatore, che non vengono dal fumetto, ma discendono direttamente dal tardo Rinascimento, con le contorsioni dei corpi, gli scorci prospettici spericolati eppure così solidi, in cui il titanismo michelangiolesco non ha niente a che vedere con i super-eroi americani.
Questo è un altro aspetto sorprendente di Liberatore: ottenere una solidità così possente e sontuosa usando il computer, cioè la tecnica più evanescente che si possa immaginare, fatta solo di luce e colore, senza più nessun contatto con la materia.
Se si ha la fortuna di conoscere personalmente Tanino Liberatore, si può capire da dove tragga l’energia per alimentare il suo furore creativo. È un ragazzo solido, ruvidamente schietto, più incline all’incazzatura che alla pietà, anche se si avverte una certa forma di condivisione compassionevole per le sue furenti creature.
Insomma, forse si è capito che sono un suo incondizionato ammiratore e che, in realtà, mi rodo d’invidia, anche perché il mio unico idolo rock, Frank Zappa, ha chiesto proprio a lui di fare la copertina di un suo disco.
Con affetto,
Milo Manara